LA GRAVE PATOLOGIA NON ANNULLA IL LICENZIAMENTO
Con la sentenza 23338/2018 la Corte di cassazione fa chiarezza sul tema del licenziamento discriminatorio nell'ambito, in particolare, dei rapporti di lavoro in cui il dipendente sia affetto da gravi patologie cliniche.
La decisione trae origine dal ricorso di una lavoratrice che, licenziata per giustificato motivo oggettivo al rientro da una lunga assenza per malattia, ha visto in primo grado accolta la propria domanda di nullità del licenziamento, asseritamente determinato dal motivo illecito della discriminazione nei confronti di un soggetto affetto da grave patologia.
La Corte d'appello di Roma ha riformato la decisione del tribunale, statuendo come la prova della discriminazione o del motivo illecito determinante dovessero essere fornite dalla lavoratrice. Nell'esaminare i fatti addotti dalla lavoratrice la Corte d'appello ha chiarito come il licenziamento discriminatorio differisse da quello per motivo illecito determinante e che la natura discriminatoria, a differenza del motivo illecito, non fosse esclusa e restasse invalidante anche se coesistente con ragioni legittime di licenziamento.
Nel merito la Corte aveva rilevato che i bilanci dell’azienda dimostravano una crisi economica tale da giustificare la soppressione di una posizione lavorativa e che, tra le posizioni oggetto di possibile soppressione, oltre a quella della lavoratrice gravemente malata, vi era unicamente quella di una dipendente il cui licenziamento era vietato dal testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (in quanto affidataria di un bambino da meno di un anno). Alla luce di queste circostanze, la Corte d'appello romana ha escluso che, nel caso sottoposto al suo esame, potesse parlarsi di licenziamento nullo perché avente natura discriminatoria.
La Corte di cassazione ha confermato la sentenza resa in secondo grado, offrendo importanti chiarimenti in punto di licenziamento discriminatorio. In primo luogo , i giudici di merito hanno chiarito come debba premettersi a ciascuna decisione in materia di discriminazione l'individuazione del fattore di discriminazione vietata, che nel caso in esame non era genericamente la malattia ma l'esistenza di un “handicap”, come definito dal Dlgs 216/2003 e pertanto non condizionato dal previo riconoscimento di una grave disabilità ai sensi della legge 104/1992, ma consistente in una «limitazione, risultante in particolare a menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».
Correggendo la pronuncia d'appello, la Cassazione ha poi chiarito che, ai soggetti che lamentino una discriminazione, non debba applicarsi il regime probatorio ordinario (sebbene per via di presunzioni), ma quello “agevolato” previsto dalle norme speciali in materia di discriminazioni, in base al quale il lavoratore deve allegare e dimostrare «circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo», dopodiché toccherà al datore di lavoro «dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi altro lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse ritrovato nella stessa posizione.